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Scrivere col cibo: Concetta Colucci narra la cucina pugliese

Non ti resta che metterti comoda (o comodo) e leggere Concetta Colucci. Lei non è una che ha poco da raccontare. Dopotutto la cucina pugliese non può esaurirsi in un laconico “buona”. #Scriverecolcibo prosegue così, con lei dopo Dianne Jacobs, Laura Ottaviantonio, Nicole Gulotta ed Anna Cosetti.

Concetta Colucci non è una foodblogger, non è neppure una chef, non è tante cose, ma scrive in treno ed alla scrivania. Con lei ho passato infiniti aperitivi a discutere di aggettivi ed entusiasmi, grano arso e lieviti, fino a perderci in consigli di lettura. Ci siamo scambiate libri, appunti, speranze ed ambizioni. Tutto condito con una gran voglia di scrivere.

Sì, lei non è una foodblogger ma scrive, pure online. Post e racconti per lei non hanno segreti. Puoi averla letta da Il Sud Online a Just a Platform. O forse ti starai domandando quando scriverà ancora su Hai sognato.

Aspettando seguila qui per #scriverecolcibo.

Concetti, facci scoprire il personaggio di questa intervista: la cucina della tua Puglia.  Per farlo, dacci tre aggettivi per descrivere la cucina della tua Puglia?

Mi piace pensare alla cucina pugliese come a qualcosa di ricco e povero al tempo stesso, penso a qualcosa di opulento e semplice, perché probabilmente la cucina pugliese è quella degli ossimori … degli estremi che si “parlano” in un singolo punto che ogni pugliese conosce bene.
E’ certamente una cucina “pop”, nel senso di popolare, ma anche piena di mille sapori, della terra, del mare, olio, carne, pesce, frutta, tutto sa di “tanto”, ogni sapore esiste e lo fa intensamente. Una albicocca o un fico hanno un sapore preciso e identificabile persino per luogo di provenienza o per tecnica di coltivazione.
Al tempo stesso è una cucina povera fatta con i soli prodotti della terra e con quello che non va buttato mai via: penso al pane cotto con le rape che si fa con il pane raffermo, che diventa nei giorni vecchio e duro, che si taglia a pezzi grandi e che si cucina nella stessa acqua dove sono state bollite le rape. Il condimento è fatto da solo olio crudo. Il sapore è ricco, ancora una volta e il piatto è definito povero.
In ogni parte di Italia, noi italiani, ci siamo inventati un modo di recuperare il cibo avanzato e così se in Toscana esiste la ribollita, in Puglia esiste il pane cotto con le rape.
Cibi poveri certo, ma che riscaldano la casa e la famiglia.

Memoria di grande povertà della mia regione è il grano arso, vi racconto questo ricordo di mia madre: dopo la mietitura del grano, venivano bruciate le stoppie per far rigenerare il terreno e quello che rimaneva dei chicchi di grano sfuggiti alla mietitura, veniva arso con le stoppie. Dopo la bruciatura, i contadini che non potevano permettersi il grano e la farina pregiati, giravano per i campi alla ricerca meticolosa dei chicchi di grano bruciato, “arso”, da cui si ricavava una farina non più bianca ma nera (di nuovo un cibo che unisce due poli opposti, anche nei colori). Il grano arso ha il preciso sapore di bruciato, che è il racconto della mia terra, povera e arsa dal sole.

Il mio ultimo aggettivo è familiare, ogni pietanza è il frutto di una condivisione di famiglia, la mattina a colazione si decide il pranzo, la cena e il pranzo del giorno dopo. E se si è da soli a mangiare, mille sono gli elementi della cucina che ti ricordano la famiglia, l’olio che usi per condire la pasta, viene dal campo di tuo zio Pasquale, che è stato spremuto nel frantoio del tuo paese, nelle taniche scelte e pulite da sua moglie. Ogni pranzo della domenica in famiglia è un impegno sacro per tutti, soprattutto per chi si incarica della preparazione del classico sugo di seppie ripiene e troccoli (una sorta di spaghetti molti grandi) fatti in casa.

Dacci un libro per scoprirla: sì, qual è quel libro di cucina che non manca mai in una cucina pugliese?

Direi che non esistono libri di cucina che un pugliese debba avere, ognuno ha il proprio libro di ricette, che in fondo sono solo appunti presi su quaderni a righe larghe, di quelli che usano i bambini alla scuola elementare e che generalmente le mamme rubano ai propri figli per appuntare velocemente le scoperte che fanno durante la loro vita in cucina, quando rimangono più tempo a casa e di inverno sfornano un numero tendente ad infinito di torte e focacce.

Ora che abbiamo il personaggio, facci sentire la sua voce. Quali sono le voci che meglio raccontano, in Italia e all’estero, la cucina della Puglia?

Non è una voce nuova, quella di cui ti voglio parlare, ma di una che viene dal passato, un pezzo di storia, quella di Nazareno Strampelli, un agronomo genetista italiano che effettuò semine sperimentali su campi nella zona di Foggia, proprietà del senatore Cappelli e a Foggia si costituì il centro di ricerca per la Ceralicoltura.

A causa della siccità che caratterizzava il terreno in Puglia, Strampelli selezionò e incrociò sementi autoctone del sud d’Italia con altre provenienti da paesi del mediterraneo. Il grano selezionato nel 1923, portò il nome di Raffaele Cappelli, divenuto senatore. Strampelli rilasciò altre varietà di grano duro, ma il Senatore Cappelli diventò un successo fino agli anni 60 quando cominciò il suo declino. Attualmente viene riproposto sul mercato per le sue riscoperte qualità nutrizionali.

LA STORIA. Senatore Cappelli, il grano antico che innova

Ti racconto storie di oggi, quella di Manuela Mucci e della confetteria che porta il suo nome e quello della sua famiglia ad Andria, che grazie alla Mandorla di Toritto e ad una selezione scrupolosa delle materie prime, fa della confetteria una vera e propria arte, sperimenta in continuazione nuove proposte attente alle nuove esigenze ed abitudini, ad altre fedi ed etnie, ci sono confetti Halal e Kosher, gluten così come il confetto con la ricetta medioevale originale del tempo di Federico II di Svevia, imperatore e magnate in Puglia. link a il museo del confetto.

Ti racconto di Grazia che da Nardò si è trasferita a Milano e nella sua Pausami fa ricerca sulla alimentazione frutto di sapienza antica.

Grazia ha scoperto e continua a raccontare la storia di prodotti semplici usati dai nostri nonni che hanno il potere di fare bene, come ad esempio le friselle d’orzo, utilizzate come cena o come merenda dai bambini e dagli adulti in tutta la Puglia. Nel Salento la loro forma è senza buco, invece nel nord della Puglia le stesse friselle, con lo stesso sapore, hanno una differenza: hanno il buco. La motivazione della diversità di forma, risiede nell’uso. Nelle zone del nord della Puglia, le friselle avevano il buco perché venivano infilate in una catena che si metteva al collo degli asini per poter essere trasportate, appese e mangiate.

IL SUD CHE FA DA SE’. Da Nardò alla Milano di fine ‘800: la riscoperta della Barbajada

Ti racconto ancora di Gianni che da Altamura si è trasferito a Londra e nella patria dello street food, nel meraviglioso mercato di Greenwich frigge i suoi panzerotti in totale Puglia Style.
… e ti racconterei mille altre storie di mille altri pugliesi che raccontano la loro terra attraverso il cibo.

E non resta che parlare della trama. Non nasconderti dietro l’evidenza. Cosa hai veramente raccontato in “Metti un Natale a cena”? Come la cucina pugliese ha influenzato la tua “esperienza narrativa”?

“Metti un Natale a cena” è la storia di una ragazza che diventa donna, le storie di famiglia e quella personale si intrecciano nella narrazione e ogni episodio è il nodo che porta la ragazza sul gradino successivo, quello in cui da donna sarà lei stessa a creare una nuova storia in una nuova famiglia … la sua!

Ed ora, a te lettore, il compito di trasformare un’esperienza culinaria in esperienza narrativa. Cosa ti blocca?