Food media sanno affrontare un vero articolo come The Problems with food media that nobody wants to talk about di First we feast? Pure un foodblog tra milioni, tra colpe e mea culpa, si sente chiamato in causa.
Svegliarsi la mattina, accedere ad Internet e avere qualcosa di vero da leggere (e stampare e sottolineare) non è da tutti i giorni. Ammettiamolo: i miracoli accadono!
Mai perdere la speranza, quindi.
Nel mare magnum di visibilità, post del giorno, ricordi di ricette, i 10 caffè di Pechino ed mio mese del caffè, il limitato eppure infinito universo dei food media scalpita ogni giorno, ma a volte non lascia il segno.
First we feast, il 3 febbraio 2016, ce l’ha fatta. Proprio un bel goal e senza fuorigioco.
The Problems with food media that nobody wants to talk about ha la sintesi dei migliori compendi. Fotografa comportamenti e scenari consolidati. Non si perde tra luoghi comuni e neppure elargisce consigli. Elenca, con dati e link alla mano, quelli che sono i problemi di cui i food media si alimentano. Lo scopo?
E se lo scopo fosse quello di ogni buon articolo: farsi leggere ed ingenerare una reazione, ancora prima di una presa d’atto?
La mia reazione, piccola blogger tra milioni, è di mettermi in discussione subito e a caldo. Il wok scotta.
Dopotutto, essere blogger vuol dire essere tutto e nulla tra i food media e poter far tutto o nulla sotto la falsa parvenza della visibilità e la più immediata maschera, di quella che First we feast, chiama vanità.
Food media a chi?
Su questo è apparentemente vago First we feast.
Non va a colpire nel mucchio, pur focalizzando la sua attenzione ora sui food writer, ora sui recensori di ristoranti, arrivando fino ai media giovani o meno, dalle riviste ai siti internet, e ponendo sullo stesso piano le applicazioni come Yelp.
Ha anche la capacità di non legare il mezzo (media) ad un supporto, materiale o tecnologico, perché quello a cui loro (Chris Schonberger e Justin Bolois, autori dell’articolo) mirano sono i comportamenti delle persone oggi giorno identificate come food media.
Quel che conta è chi fa cosa e come lo fa, soprattutto quando si spaccia per e si sente un professionista. Perché avere una professione significa avere anche un codice di comportamento.
… the code of ethics in food circles is disconcertingly lax …
Qual è il codice etico di chi da un’immagine su Instagram passa, il giorno dopo, ad un post sul nuovo trend nel mondo del cibo? Qual è il filtro giornalistico di un food media all’esperienza di una notte? E’ questo che si domanda First we feast.
Risposta di una blogger consapevole dei propri limiti?
E’ che quel filtro c’è nel momento in cui hai il coraggio di ammettere le ragioni di quell’esperienza di una notte (invito o scelta libera) e qual è lo scopo del post, che spesso è una via di mezzo tra resoconto, flusso di coscienza, analisi descrittiva e ricerca minimale.
In parte questo tema, in terra d’Italia, è stato ben affrontato, da Spadelliamo quando scrive dei post sponsorizzati. Lo cito perché l’attenzione alla trasparenza va oltre la presenza immediata di un mecenate.
I food media fanno cucinare?
Sì, hai letto bene. Fanno cucinare oltre se sanno cucinare?
“Far sapere invece di saper fare” una critica alla cucina contemporanea in #cherif #surprise
— Rossella Di Bidino (@rossella76) January 18, 2016
First we feast dedica un intero capitolo a The recipes don’t work anymore (le ricette non funzionano più). Ha un milione di ragioni per farlo.
Quello che in una sera svogliata sentii dire da un cuoco interrogato dall’investigatore Cherif in TV a proposito degli chef d’oggi, Chris e Justin lo traducono con “recipe as meme instead of meal—viewed by millions, cooked by none”.
La percezione, infatti, online è che la ricetta è diventata quasi un cliché, visto e cliccata da molti, ma cucinata da nessuno.
In parte, non è solo un male d’oggi. Quante ricette trascritte a penna avevano le nostre mamme e quante ne provavano? Il germe del collezionista si annida in chi si lascia travolgere dal mondo del cibo.
Diventa un problema quando il germe del collezionista si trasforma nell’urgenza di pubblicare un libro di cucina. Da piccola blogger sprovvista del badget di un libro stampato, a tratti ho la vanitosa e presuntuosa percezione che troppi sono i libri di cucina in giro per casa, sugli scaffali delle librerie e pure nella wishlist di Amazon.
“Too many new cookbooks are little more than vanity projects” nero su bianco dubbi e certezza in @firstwefeast https://t.co/MKO1j2yiK9
— Rossella Di Bidino (@rossella76) February 4, 2016
Questi vanity projects hanno tutti ragione d’essere?
Libri, e io aggiungo anche i blog, con le loro ricette elaborate (più o meno), con le loro parole spese a favore di ingredienti oscuri, il presunto sapere fatto di liste esaustive su come fare o cosa cucinare o dove mangiare, sono utili?
Oltre la presa di coscienza, non ho la risposta.
La teoria giornalistica e le leggi del mercato vorrebbero che la risposta spettasse al lettore… sempre che il lettore la vuole dare e non si lasci trasportare dalle strategia della comunicazione e del SEO.
Sì, perché tra Search Engine Optimation, il marketing, le tecniche comunicative, i social media, mi domando pure quanto il lettore, geek o blogger o povera, ed oramai ottuagenaria, massaia di Marghera, sia libero di scegliere.
…libero anche di spegnere il computer, chiudere la rivista e farsi senza problemi la sua vita. Dopotutto la vera fine di una ricetta è in cucina, nella vita reale, scardinata dalle regole e dalle parole dei food media.
(PS. Un’altra fine vera di una ricetta, non nascondiamocelo, è anche la spesa al supermercato, mercato e/o sul web).
Sostenibilità dei food media
Food media vs. money.
Anche i food media devono far la spesa. E al mercato non vai se lo stipendio non ce l’hai.
The days of $80,000–$150,000 magazine salaries and expense accounts are long gone; these days, not only are assistant editors and bloggers starting out as low as $30,000 in New York City, but the march towards triple digits is a slow grind with very little job security. For freelancers, the $2-per-word heyday of print turned into $10 per blog post.
Campare come puro food writer è complicato e da tale complessità nascono le commistioni tra pr, chef, sponsor e media. Se First we feast si preoccupa prima della paura di perdere l’accesso alle fonte (leggasi alle cene al ristorante), spetta poi al lettore porre in relazione tale timore con le opportunità di lavoro e di soldi che questi accessi possono aprire e garantire.
Il web rende l’assaggio più sfuocato aggiungendo una non mai bene definita visibilità, sulla cui durata, dopo Andy Warhol, nessuno se ne preoccupata più. Anzi, ancor peggio di una prestazione sessuale, della visibilità se ne discute dietro le quinte.
Ciò che è certo è che non dura a lungo e che di apparenza non si campa.
In un mondo in cui le conversazioni sul cibo non si fanno sulle riviste, non paiono più sostenibili le tattiche basate sulla Twitter-driven popularity, citate come ultima spiaggia da First we feast.
Ultima spiaggia da cui bisogna alzarsi, perché…
… writing is not an armchair exercise …
Mi alzo e torno alla mia (spero non) food-blog fuckery.
Buona lettura di The Problems with food media that nobody wants to talk about.
PS. I termini in corsivo sono presi da First we feast. Figurarsi se io mi sono mai interessata ad ingredienti oscuri. Il pestat è un must, non è oscuro 🙂