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Liberi di dover partire

Se mi lamento spesso di non aver tempo di fare le cose, come scrivere su queste pagine dell’opera di Leonardo Zanier, però ci son cose mi fanno fermare. E queste cose sono quegli eventi più grandi di tutto il mio egoismo ed egocentrismo. Rimanere insensibili alla forza emotiva ed oggettiva delle battaglie in corso in Libia e nei dintorni di essa è quasi inumano.
Essendo cresciuta la mia conoscenza del così ampio e variegato “mondo arabo” alla scuola di Fatema Mernissi e di altre mirabili scrittrici “arabe”, tali cambiamenti non li sento come improvvisi ed improvvisati. 

Ma mentre queste esigenze sociali esplodono c’è un’Europa che pensa alle famigerate emigrazioni. Sembra banale e riduttivo dire che siamo tutti potenziali migranti, anche se travestiti da turisti e lavoratori, ancora più banale e dire che eravamo migranti. Ma queste banalità crollano dinnanzi alla realtà tradotta nella propria lingua.

Dedica

a quelli che non torneranno più
perchè son morti
a quelli che non torneranno più
e che son vivi
a quelli che son tornati
per morire
o per ripartire

a quelli che stanno partendo oggi
e a quelli che ancora non sanno leggere
o che scalciano
nella pancia della loro madre
che nasceranno già orfani
di padre
e lo saranno dieci mesi all’anno
finchè avranno anni abbastanza
per dargli il cambio
per continuare una orrenda
tradizione
uno spreco di affetti
un correre senza radici
un lavorare senza interesse
un invecchiare
senza speranza

a mio padre
che ha portato fatto e disfatto valigie
sotto tutti i cieli
finchè la sua forza
è stata più grande
del peso delle valigie

a mia madre
che ha pianto facendole
aspettato inghiottendo il tempo
novembre e le lettere
e in silenzio lo ha abbracciato
quando tornava
pianto aspettato abbracciato
pianto aspettato abbracciato
anno dopo anno
pianto secoli
per abbracciare secondi

a voi amici tutti
morti e vivi
a te Aldo e alla tua gioventù
ridente e sfortunata
alla tua vita
breve come una villotta
il tempo di sentirla
piace
e già è finita
un canto la tua vita
un urlo a tua morte
in un paese di sordi
che ti sfruttava
in un lago svizzero
volevi rinfrescare
il tuo sudore
ma il lago si è chiuso
sopra la tua speranza
e le lacrime
hanno fatto cerchi sull’acqua

a Sivio e a tutti voi
che siete tornati
segnati nella carne
che il lavoro
vi ha potatoi
mutilati
come la scure su un tronco

a Luciano
e a tutti quelli che credono
che si può fare
che si deve cambiare
a quelli che hanno occhi per vedere
e mani
che sanno stringere altre mani

e a noi carnici:
_forti
onesti
lavoratori _
e sani
e intelligenti
ma più nelle canzoni
che nella vita

a noi che litighiamo
per due metri di terra
perchè non abbiamo terra

che emigriamo
perchè non abbiamo lavoro

che dicimo
signorsì signor padrone
e pensiamo…
perchè abbiamo paura

a noi che solo quando ci mettono
un cappello con la piuma
e qualche litro di vino in corpo
sappiamo diventare eroi

alle nostre vecchie case
solide e leggere come un canto
che non sappiamo più fare

a quel desiderio di libertà
che ci vive dentro
anche se nati
in valli così strette

a quelli che hanno avuto la forza
di resistere venti anni
e di metterselo da soli
il loro cappello con la piuma
che sono rimasti uomini
quando essere uomini
voleva dir prigione
e non avere la tessera
fame

a quelli che per forza
emigranti
su treni bastiame piombati
hanno lasciato la vita in un forno
e hanno pagato per tutti
se di tutti è la colpa
quando la bestialità
e l’egoismo diventano potere
perchè troviamo il coraggio
di gridare
non da ubriachi:
RIDICOLI!

a quelli che in ogni occasione
nelle cene
e sui giornali
esaltano con retorica
il sacrificio silenzioso
e disgraziato
di questa terra
perchè anche noi
si arrivi a trovare una ragione
ai nostri sforzi
una fine al nostro emigrare
invece di annegare
i guai nel vino
e a piangere in silenzio
sulle nostre disgrazie

(adattamento italiano di Dedica di Leonardo Zanier apparsa in Libers… di scugnî lâ / Liberi… di dover partire, Poesie 1960-62 )

Immagine tratta da Cjargne Online.